Teatro

Parla al cuore dei giovani la 'Napoli Milionaria' di Peppe Celentano

Parla al cuore dei giovani la 'Napoli Milionaria' di Peppe Celentano

Il Teatro di Eduardo rappresenta, per la generazione cresciuta a cavallo degli anni ’70 e ’80, un riferimento fondamentale per la crescita culturale in ambito teatrale. La trasmissione delle sue commedie a mezzo televisivo, la pubblicazione delle stesse nella collana editoriale dedicata alla drammaturgia da Paolo Grassi per l’Einaudi, sono stati il viatico per conoscere e, in molto casi, per amare il teatro. Per i giovani del duemila, bombardati da una televisione sempre meno attenta alla formazione culturale, anzi proiettata verso un violento imbarbarimento, il primo contatto col teatro avviene, fin quando i tagli che il nostro attuale governo filotelevisivo ce lo permetterà, grazie alle iniziative di insegnanti e dirigenti scolastici, che si assumono i compito di far conoscere ai ragazzi quanto il teatro sia ancora un’arte viva, costretta, purtroppo, ad essere considerata di nicchia per i motivi di cui abbiamo già disquisito. È nato, perciò, negli ultimi anni, un vero e proprio genere, il cosiddetto “Teatro-Scuola”, incentrato su di una drammaturgia originale, studiata apposta per i giovani fruitori, spesso tematicizzata su argomenti di attualità o comunque inerenti ai programmi didattici. Risulta quindi particolarmente inconsueta la scelta del Teatro Diana di Napoli e del regista Peppe Celentano (entrambi leader del teatro che si rivolge agli studenti) di produrre e portare in scena uno dei celebrati classici della drammaturgia del grande autore napoletano, nel centodecimo anniversario dalla sua nascita. Si tratta di quella “Napoli Milionaria” che segnò l’inizio della produzione più matura del nostro, che egli chiamò dei “Giorni Dispari”, portata in scena in una Napoli martoriata dalle bombe, mentre nel nord ancora si combatteva, in un teatro San Carlo eccezionalmente prestato alla prosa, colmo di napoletani che, in una straniante catarsi tragica, si immedesimavano nei crudi avvenimenti rappresentati. Di grande rilevanza didattica è quindi il recupero, da parte di Celentano, di questo testo, al quale egli si è avvicinato con il dovuto rispetto, ma asciugandolo da quella retorica, assolutamente pertinente a sincera all’epoca del debutto dell’opera, ma poco idonea alla contemporaneità ed al linguaggio del 2010. Intelligente la sua regia, non invasiva, ma che mescola i linguaggi contemporanei alla tradizione senza ledere minimamente l’assunto originale, Celentano come attore, inoltre, si concede il ruolo del protagonista, Gennaro Jovine, senza nemmeno tentare un benché minimo accenno alla recitazione dell’inimitabile grande Eduardo, risultando convincente nel suo contenuto lavoro attoriale, che non cede alle lusinghe di un facile gigionismo. Accanto a lui Gabriella Cerino, nell’insidioso ruolo di Amalia, rende realisticamente il dissidio morale della donna, indugiando forse più sull’aspetto materno che su quello dell’amante. Interessante tutto il cast che compone questa compagine di bravi attori, da Peppe Miale, un Enrico “Settebellizze” meno tracotante dei suoi predecessori, a Gingy Comune, da Roberto Giordano ad Emilio Salvatore, da Giovanni Allocca a Mario Santella, quest’ultimo nel breve cameo del medico. Ma dove lo spettacolo trova la sua forza è nell’utilizzare una forza giovane che contribuisce a dare smalto ed ad accrescere l’ empatia con gli altrettanto giovani spettatori: dai bravissimi Floriana De Martino ed Arduino Speranza , entrambi giovani solo anagraficamente, ma già da tempo ritenuti a ragione delle realtà del nostro teatro, irresistibili per vis comica e capacità espressiva, ai semi- debuttanti Yuri Napoli (un Amedeo convincente e dalla giusta fisicità), Elisabetta Bevilacqua (delicata e smarrita Maria Rosaria), Diego Sommaripa, e Valeria Frallicciardi. Un lavoro impegnativo e coinvolgente, quello di Celentano e della sua compagnia, cha ha il compito di avvicinare le nuove generazioni ad un teatro che spesso, a torto, viene considerato obsoleto. Un lavoro di originale essenzialità, che regala momenti di puro divertimento ma senza scadere nell’ovvia comicità che poca attinenza ha con l’anima drammatica dell’opera, il ritratto di una Napoli sanguinante allora per la guerra, ma oggi ancora languente di dolore per i mali che l’affliggono. Insomma il realismo eduardiano diventa evocazione di mali contemporanei, così come l’intelligente, agile, scenografia di Luigi Ferrigno sembra suggerire, in cui il basso napoletano viene stilizzato in una semplice sagoma di legno. Un mondo lontano ma non assente, che ancora oggi aspetta la fine di questa interminabile nottata.